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Tre brevi storie
Per una valorizzazione compatibile del patrimonio culturale si devono evitare due cose, che sembrano invece attrarre oggi più che mai chi lo gestisce: concentrarsi su poche emergenze di alto valore artistico e renderle spettacolari forzandone l’immagine scenografica a danno dell’autenticità del bene. Se si possiedono cultura, sensibilità e specializzazione, si riescono a valorizzare anche i reperti non formalizzati, quelli privi dei tradizionali valori artistici ma che documentano storie vastissime, a tutti i livelli, dal singolo piccolo reperto archeologico fino alla scala architettonica. Le tre incredibili brevi storie illustrano appunto come elementi apparentemente privi di valore possano contenere moltissimi significati, creare cultura e quindi valorizzazione.
Three short stories
Tre brevi storie per capire che gli orizzonti della cultura sono molto più ampi di ciò che comunemente si crede e che il patrimonio culturale è ricco di valori, che non sono solo quelli formali e figurativi, ma sono anche quelli meno appariscenti, quelli costituiti dai mattoni, dalle pietre, dalle murature e dal tempo che li ha segnati. Per innescare l’indotto connesso alla valorizzazione di questi documenti materiali non sono necessari interventi spettacolari di iper valorizzazione, non devono essere ri-costruiti, re-integrati o ri-prodotti ma apprezzati perché portano con sé significati ampi e perché sono autentici.
Per ottenere una valorizzazione compatibile devono solo poter parlare e di conseguenza vanno interpretati e divulgati.
Certo, bisogna avere occhi allenati e preparazione da specialisti per capire i messaggi contenuti dalla materia storica perché non ci si deve limitare né alla percezione superficiale dell’immagine, che tanti guasti ha prodotto nel restauro, né alla valutazione dei soli aspetti visivi e formali ma si deve andare oltre, interpretando tali manufatti come documenti di cultura materiale.
Le tre storie che propongo riguardano i messaggi che alcuni elementi poveri, quelli per capirci non formalizzati e da sempre trascurati, quindi generalmente demoliti o sostituiti, possono raccontare se la ricerca specializzata ne spiega i contenuti, ne indaga le relazioni e ne approfondisce la cultura. Sono tre oggetti banalissimi: un pezzo di giada, dei cocci di ceramica e un coppo, oggetti che dimostrano quanti significati può contenere un singolo elemento di cultura materiale e quanto connessa sia la materia fisica del passato con discipline lontanissime, quali la geografia, la sociologia, l’antropologia, l’economia, la religione, la storia economica e la storia stessa. E si potrebbe continuare a lungo se si facesse parlare la cultura materiale. Lo scopo è dimostrare che gli oggetti parlano, ci raccontano infinite storie circa le loro modalità di produzione o di utilizzo, quelle relative all’organizzazione sociale della comunità che ha prodotto questi oggetti, quelle riguardanti l’amministrazione politica ed economica di chi li ha utilizzati, del loro modo di vestire, di combattere e di alimentarsi. Tutti questi elementi forniscono un quadro straordinariamente ricco.
La prima storia riguarda un oggetto marginale quasi privo d’importanza artistica e formale: una pietra di 6.000 (seimila) anni fa trovata in Inghilterra nella zona di Canterbury. Si tratta di un’ascia senza manico (perché marcito), normalmente ritenuta una testimonianza solo di carattere antropologico. Ma se la lettura di questo oggetto si estende oltre l’aspetto formale si osserva che l’ascia non è costituita da una banale selce ma è in giada. E se ancora si procede approfondendone la cultura materiale, si capisce una cosa quasi sconcertante: la giada in Inghilterra oggi non esiste e tantomeno esistevano cave di giada 6.000 anni fa. Da dove proveniva allora?
Alcuni studiosi archeologi hanno scoperto, dopo 12 anni di incredibili ricerche, che quel pezzettino di giada proveniva da una cava sita in Italia e precisamente nelle Alpi ad una quota compresa tra i 1.800 e i 2.200 metri di altitudine. La cultura materiale ha così aperto strade affascinanti per la comprensione, e di conseguenza anche per la valorizzazione, di quell’oggetto. Esso ci comunica innanzitutto l’incredibile dinamismo di quella comunità inglese del 4.000 a.c., poi che quel popolo era in grado di pensare commerci stabili e duraturi tra due realtà così lontane, che sapeva organizzare e gestire i trasporti, oltre ad essere in grado di definire le lavorazioni tecniche specifiche. L’oggetto ci comunica fatti straordinari: quei popoli 6.000 anni fa sapevano organizzarsi per viaggiare attraverso il mare, lungo i fiumi, via terra fino alla vetta delle Alpi, parlavano le lingue dei diversi territori che attraversavano, scambiavano merci, conoscevano la geografia, l’organizzazione geopolitica, sociale, economica di aree vastissime.
Se l'analisi formale consente una lettura limitata alla geometria e al colore, la materia è invece in grado di aprire moltissimi universi culturali, quali quelli relativi all’organizzazione dei cavatori (cavare un blocco di pietra a 2.000 metri di altitudine non è cosa facile nemmeno oggi), di coloro che hanno trasportato a valle il materiale grezzo, di chi ha materialmente lavorato l’ascia, ma anche dei significati particolari che nell’Inghilterra dell’epoca poteva assumere un oggetto prezioso e particolare del genere: religioso? cerimoniale? di ostentazione di ricchezza? di potere politico e sociale? Molti sono i significati che contiene la cultura materiale.
Trasformare questo sapere contenuto negli oggetti in storie da raccontare, dovrebbe essere il compito di chi deve valorizzare il patrimonio; e in questo senso, il fatto che l'ascia abbia o meno il manico, ossia possieda integrità formale, non ha nessuna importanza ai fini della valorizzazione.
La seconda storia riguarda alcuni piccoli cocci risalenti al 1200 e ritrovati su una bassa scogliera dell'Isola di Kilwa Kisiwani sulla costa orientale africana. Si tratta di tre pezzettini: uno è di colore verde pallido, che si è scoperto provenire dalla Cina ed esportato in tutto il sud-est Asiatico e quindi anche in Africa, il secondo è un coccio azzurro che proviene dal mondo arabo e precisamente dalla Siria o dall'Iraq, e il terzo è un frammento di semplice terracotta utilizzato per recipienti d'uso domestico del quale si sono trovati analoghi resti in tutti i porti del Medio Oriente.
Cosa significano questi reperti? Ci raccontano che quella civiltà ormai scomparsa faceva capo alla città di Kilwa, che nel 1.200 aveva oltre 12.000 abitanti, che avevano rapporti economici, commerciali, artistici, politici e culturali con il mondo arabo, con quello persiano, con quello indiano e con l'Impero Cinese.
I reperti di cultura materiale testimoniano che, grazie ai venti stabili e alternati da sud-est e da nord-ovest, sull'Oceano Indiano tre secoli prima di Colombo navigavano popoli con continuità e scambiavano merci di ogni tipo a 8.000 chilometri di distanza. L'oro arrivava dal lontano Zinbawe, i lingotti di ferro si esportavano in India, il legname serviva all'edilizia del Golfo, e poi viaggiavano la seta, il vetro, i cosmetici oltre naturalmente agli schiavi. Ancora, quei cocci ci raccontano che in quel tratto di costa soggiornavano per lunghi periodi viaggiatori, mercanti e marinai arabi e persiani, che nel tempo hanno profondamente trasformato la popolazione della città di Kilwa e di tutta la costa della Somalia e della Tanzania in una nuova comunità swahili che ha importato la fede islamica, ha assunto molte parole arabe e persiane ed è diventata cosmopolita nel modo di sentire.
Come nel caso precedente il valore testimoniale del coccio sta nel suo essere coccio, perché se ricostruissi il vaso, anche se avessi il modello perfetto, non avrei maggiori informazioni né di conseguenza maggiore valorizzazione.
L'ultima storia riguarda un coppo, il tradizionale coppo che riveste la maggior parte dei nostri tetti e che è forse l'ultimo degli elementi di cultura materiale al quale l'edilizia riconosce importanza dal momento che da sempre è stato buttato e sostituito come una vecchia scarpa. In un suo originalissimo libro, Marco Ermentini parla con un coppo e gli fa raccontare le tante storie che questo ha vissuto. Inizia con quella della sua produzione, da quando era argilla a quando è stato impastato dalle mani sapienti dell'artigiano fino alla cottura; il coppo racconta le diverse caratteristiche della sua fabbricazione, le modalità di posa in opera, il degrado che ha subito nei secoli, le attenzioni e le trascuratezze fino ai cicli manutentivi e all'oblio.
Più avanti il coppo si apre con il suo interlocutore e narra dei suoi colleghi che ancora sopravvivono, di quelli che sono stati macinati e sono stati trasformati in cocciopesto e dei rapporti con gli elementi vicini: manti di tavelle, terzere, capriate, cornicioni in pietra e murature di mattoni; un mondo brulicante di artigiani, di culture, di abilità costruttive davvero straordinario. La storia del coppo è completamente diversa dalle tradizionali Storie dell'architettura e dell'arte.
Qualche anno fa Giuseppe Rocchi definiva la materia come la grande assente di tutte le storie dell’architettura. Infatti, nei tradizionali testi di storia dell'architettura non è dato sapere se le fabbriche possiedono finiture superficiali o ne sono prive oppure se gli intonaci sono a base calce aerea e cocciopesto, di gesso e sabbia o additivati con pozzolana o altro; nessuno, se non in altro campo di studi, ha mai approfondito la natura dell’apparecchio murario, le modalità costruttive, i componenti, le particolarità della tessitura, del legante. La stessa cosa vale per tutto ciò che non appare alla vista, quali le strutture dei solai, delle volte, le travature delle coperture, e ciò può in parte spiegare perché oggi l’immagine si impone sul contenuto.
Qual è la morale di queste storie?
La morale è che chi s'interessa di valorizzazione del patrimonio culturale in genere ignora le potenzialità della storia fatta con gli oggetti e la ricchezza data dall'essere autentico e non riprodotto, per cui ritiene che più si implementa l'immagine del bene culturale più il messaggio assume un effetto scenografico alimentando il ritorno economico. Si privilegia ora più che mai la forma rispetto alla sostanza, l'immagine d'effetto rispetto al contenuto culturale, la superficie rispetto alla profondità, proprio perché il nostro mondo vive prevalentemente di immagini e di valori superficiali.
A questo proposito, su recmagazine abbiamo raccontato come esempi negativi le esagerate e stravolgenti illuminazioni di molti monumenti, le scenografiche e le inutili anastilosi di resti archeologici, come quello delle colonne del Foro Romano, oppure la gratuita creatività d’effetto e di durata assai effimera realizzata su dei ruderi inermi come nel caso di Siponto. Sono tutti casi che ignorano i contenuti culturali della materia, esaltano valori non autentici e privilegiano invece i valori del visibile.
Due dei tre oggetti dei quali ho parlato si trovano al British Museum e ciò la dice lunga ma molto lunga sul loro valore testimoniale e il terzo copre monumenti, centri storici, borghi, edilizia minore, archeologia industriale del nostro che è il Paese più bello del mondo e gli è stato recentemente dedicata una pubblicazione e anche qui scusate se è poco.
Quindi se si vuole veramente valorizzare in modo compatibile il patrimonio bisogna saper interpretare i segni delle materie, divulgare i significati in pratica come diceva qualcuno "dare voce alle cose mute".