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Bellezza senza tempo?
La deformazione professionale di chi si occupa di restauro orienta in modo particolare l’interpretazione del discorso sulla bellezza perché viene spontaneo riferirla ai nostri mondi, ossia agli edifici storici, all’edilizia minore, alle murature e ai solai che oltre alla bellezza portano con se’ il tempo, che è un significato intimamente connesso alla bellezza e da questa per noi non separabile. Cos’è quindi quella bellezza quando percorre le soglie del tempo?
Is beauty timeless?
The interpretation of beauty, by people working in restoration, very often refers to historical and minor buildings and brickworks. The beauty of these buildings transcends the time in which they were built. The concept of time is closely linked to our concept of beauty, so what do we mean when beauty travel through time?
Fermamente convinta che l’insegnamento della storia dell’arte, ma anche quello della cultura in generale, siano fondamentali per la formazione della persona, Irene Baldriga ci propone in un suo volumetto di riflettere sul “diritto alla bellezza” che è appunto il titolo del libro.
Con l’entusiasmo di chi crede profondamente nelle proprie idee, afferma in apertura “… che il diritto alla bellezza non è soltanto un diritto del singolo ma delle intere comunità e della Nazione; non si esaurisce nella possibilità dell’individuo di godere in modo consapevole delle qualità estetiche, della poesia e della densità culturale che sono proprie ad un’opera d’arte, ma si estende alla possibilità che un intero sistema possa riconoscersi nel valore della continuità, dell’armonia sociale intesa come equilibrato rapportarsi tra passato e futuro, conservando memoria e consapevolezza …”.
Comincia così in modo assai vicino agli interessi di chi si occupa di restauro architettonico il saggio della Baldriga, che in realtà è costituito da più conferenze da Lei tenute in tutta Italia per presentare i 5 volumi “Dentro l’arte” (Electa editrice, 2016). Iniziativa nobile, volta a divulgare e rilanciare la storia dell’arte come risorsa per la crescita anche economica del nostro Paese, dove l’educazione al patrimonio diventa anche garanzia del benessere presente e futuro dell’Italia.
Per educare al patrimonio artistico l’autrice ci fa notare che bisogna innanzitutto “mettere i giovani nelle condizioni di percepire l’opera, comprenderne il significato storico-culturale (ossia apprezzarne il contesto, e di conseguenza il valore, non solo in senso assoluto ma anche relativo all’epoca in cui l’opera è stata prodotta)”. Tra citazioni colte e riferimenti alti alla filosofia, alla critica d’arte, all’estetica e alla storia, la Baldriga sostiene che lo studio della storia dell’arte deve allenare a decifrare la complessità e costituire la palestra per lo studio della storia della cultura nonchè per la maturazione di quella sensibilità che è fondamentale per poter godere appieno in senso estetico dell’opera d’arte.
Parla di bellezza e museo, di bellezza correlata al fare, ossia all’atto pratico del produrre l’arte e alla lunga filiera degli artigiani che hanno ruotato attorno alle botteghe, lungi dai cliché come dice lei, tratta anche del legame profondo tra bellezza del patrimonio artistico, identità popolare e paesaggio. Non a caso cita Goethe quando, arrivato a Venezia, resta stupito e nota come “tutto ciò che mi circonda è pieno di nobiltà, è l’opera grandiosa e veneranda di forze umane riunite, è un monumento maestoso non di un solo principe, ma di tutto un popolo”.
Immediato è il collegamento alla lucida sensibilità di Salvatore Settis1 quando in Italia S.P.A. parla della forza del «modello Italia» che sta “…tutta nella presenza diffusa, capillare, viva di un patrimonio solo in piccola parte conservato nei musei, e che incontriamo invece, anche senza volerlo e anche senza pensarci, nelle strade delle nostre città, nei palazzi in cui hanno sede abitazioni, scuole e uffici, nelle chiese aperte al culto; che fa tutt'uno con la nostra lingua, la nostra musica e letteratura, la nostra cultura …”.
Sicuramente la deformazione professionale di chi si occupa di restauro orienta in modo particolare l’interpretazione del discorso sulla bellezza della Baldriga, perché viene spontaneo riferire le sue riflessioni ai nostri mondi, ossia agli edifici storici, all’edilizia minore, alle murature e ai solai che oltre alla bellezza portano con se’ il tempo, che è un significato intimamente connesso alla bellezza e da questa per noi non separabile.
Cos’è quindi quella bellezza quando percorre le soglie del tempo? Cioè quando la superficie si patina, i colori si smorzano, i chiaroscuri si attenuano, le forme si sgretolano e non sono più così precise e nitide come quando uscirono dalla mano degli artisti? E quando il tempo recente avanza e diventa tempo remoto, rimane inalterata la bellezza che oggi vediamo? Ossia, quella bellezza prodotta ora, conserverà domani i significati e le valenze che le sono stati conferiti all’atto della creazione o li perderà man mano che avanzerà il deperimento fisico? Oppure all’opposto se ne aggiungeranno altre?
Marguerite Yourcenar ha scritto pagine mirabili su questi temi.
Viceversa, quando esaminiamo un’opera, vediamo attraverso il cannocchiale dei secoli la “bellezza” che era nella mente dell’autore o del mecenate di qualche secolo fa, oppure ne vediamo altre che il tempo ha trasformato? E quindi, il tempo accresce o deturpa la bellezza?
A questo proposito, le vicende che nei tempi “segnano” la materialità dell’opera e ne modificano la consistenza fisica sono testimonianza di bellezza o, invece, di …. bruttezza? In pratica, tutte le trasformazioni che conseguono all’uso, all’abuso, al sopruso e al disuso, che nell’architettura sono continue e frequenti, lasciando profonde tracce di vita e di storia sulle strutture e sulle finiture, sono considerate bellezza e vanno dunque conservate? Oppure, sulla base di un giudizio estetico di qualcuno, vengono considerate “incongrue superfetazioni” e quindi vanno eliminate?
Il restauro deve quindi … “abbellire” l’opera d’arte o l’edificio, ossia esaltarne la “bellezza” (ma quale “bellezza” quella originaria o quella dei tempi lunghi?) o deve invece prescindere dalla bellezza o dalle bellezze, che sono poi interpretazioni soggettive, e concentrarsi sulla fisicità materica che condensa su di se’ i “segni” e quindi le stratificazioni dei tempi?
Queste considerazioni sulla bellezza ci separano da un lato dall'impostazione razionale e scientifica dell'ingegneria, che fatica assai a controllare questi concetti, e dall’altro dagli storici dell'arte, per i quali il tempo o i tempi degli edifici sono in genere assenti; per certi versi ci lega agli archeologi, loro si abituati a confrontarsi con i tempi stratificati. Per noi restauratori la bellezza non sta nella completezza della forma, nella corrispondenza all’idea dell’artista ma molto spesso sta proprio nei segni dell'uso, della consunzione e del degrado che tale forma hanno segnato nel tempo; li consideriamo plus-valori, sono testimonianze sedimentate di culture, che vanno oltre il giudizio estetico.
Non sono certo quesiti nuovi questi ma sono gli eterni problemi sui quali si confronta e si scontra la cultura del restauro, riuscendo spesso a formulare tante teorie quanti sono gli studiosi coinvolti, e il più delle volte senza arrivare a posizioni di mediazione o in qualche modo conclusive o che siano divulgabili e accessibili al vasto pubblico degli operatori.
Nel nostro operare di restauratori, quando siamo chiamati ad intervenire su fabbriche degradate, su architetture o porzioni di queste che sono state abbandonate o trasformate da intensi utilizzi, su rustici lasciati privi di manutenzione per decenni, su tutti questi edifici che si caratterizzano sempre per aver avuto cicli vitali sovrapposti, che nei secoli si sono aggiunti stratificando forme, strutture e finiture, ci domandiamo sempre: cos'è la bellezza quando attraversa il tempo? Come possiamo relazionare il nostro progetto a queste tante bellezze che ogni edificio porta con se’?
La cultura attuale ha fortunatamente superato quelle certezze che aveva il restauratore del secolo scorso e secondo cui si emettevano giudizi estetici o storici, sulla base dei quali i monumenti venivano stravolti dalle fondazioni al tetto passando per i solai e le murature.
E’ solo il caso di accennare a quanti edifici, restaurati riproducendo o esaltando la bellezza, sono oggi goduti da tutti per la loro bellezza artistica o architettonica, trascurando invece i significati di autentico, di falso e di stratificato che quell’intervento ha calpestato.
Da queste considerazioni si è maturato, con un processo faticoso e lungo decenni, che il giudizio estetico, quello per capirci sul bello e sul brutto e allo stesso modo quello storico, essendo fortemente personali e quindi relativi, non devono condizionare il progetto di restauro.
Certo, le considerazioni sulla non operatività del giudizio di valore storico e artistico sono da valutare con grande relatività, perché portarle agli estremi diverrebbe ideologico ed eccessivo, e il mondo del restauro è fatto di cautela, di scelte da verificare continuamente con un processo in avanti e indietro che evita, se possibile, prese di posizione estreme.
NOTA 1. Salvatore Settis, ‘Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale’, Einaudi, Torino, 2002.