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Le Soprintendenze, sempre colpa loro?
Come sarebbe stata l’Italia se non ci fossero state le Soprintendenze? Si deve riconoscere alle Soprintendenze la tutela del paesaggio e dei beni architettonici in Italia, si deve dare loro merito e a quel risicato numero di funzionari che vi operano di aver bloccato speculazioni, scempi e devastazioni di monumenti che per decenni si sono infranti sulle loro dighe. Non è facile far capire al mondo degli operatori privati e della politica che i valori della permanenza dei beni storici e del loro sviluppo compatibile e non prevaricante necessitano anche a volte di scelte scomode e impopolari.
Is it always the Authorities fault?
How Italy would have been without the cultural authorities?
Is because of the cultural authorities that the italian landscape and its cultural heritage has been protected and safeguarded throughout these years.
These officials blocked many possible damage to our monuments and architectural patrimony.
However, is not easy to let them understand that in order to safeguard the latters, sometimes we do need to come with uncomfortable choices and decisions.
La polemica relativa all’annullamento del concorso sul Palazzo dei Diamanti a Ferrara, quello progettato da Biagio Rossetti all’inizi o degli anni ‘90 del XV secolo, è cosa quasi a tutti nota.
In pratica il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, contraddicendo il parere favorevole espresso dal Soprintendente responsabile dell’area, che era stato autorizzato a essere membro della commissione di concorso, ha detto no all’ampliamento con un nuovo padiglione a due anni dalla proclamazione del progetto vincitore. Si sa che la politica non premia il merito e le capacità ma l’appartenenza, e questo è un pessimo e pericoloso caso di ingerenza della politica nell’ambito tecnico e culturale.
Al di là di questo, che già basterebbe, la diatriba tra antico e nuovo e quella sui limiti e caratteri dell’aggiunta nei contesti storici nasce quasi con il restauro e sul tema sono state scritte forse le pagine più belle e dense della letteratura, che ha articolato in modo diverso posizioni, filosofie e soluzioni.
Anche in questo caso le opinioni possono essere differenti e avere molteplici sfaccettature: chi si pone a favore dell’inserimento di un nuovo edificio con le sue fondazioni, le strutture statiche, coperture, isolamenti e impianti all’interno del delicato cortile rinascimentale e chi, invece, lo giudica prevaricante, gratuito, irreversibile e incompatibile. Personalmente sono per la seconda valutazione ma non è questo l’aspetto che voglio cogliere.
Lo spunto per una riflessione diversa lo dà un recente articolo di Giovanni Vencato, che abbiamo pubblicato nel numero scorso e nel quale, con il pretesto del concorso, si scaglia con veemenza contro l’operato delle Soprintendenze colpevoli, a dir suo, di “dinieghi sostanzialmente apodittici” che lasciano “il progettista privo della possibilità pratica di condurre a termine l’intervento”. Inoltre, asserisce che esiste una concatenazione causale tra il vincolo monumentale, “il vincolo esteso, il conseguente abbandono e spreco del patrimonio edilizio e dei nuclei urbani minori”. Conclude sostenendo che per affrontare “il duro vaglio delle Soprintendenze sul proprio progetto di solito si adotta una strategia di sopravvivenza o di natura mimetica […] oppure una progettazione sottrattiva”.
Non entro nel merito dell’articolo, del quale l’autore si assume la paternità, della necessità di un distinguo tra i vincoli diretti del MIBAC e quelli della 457/78 oppure sull’uso stesso dei termini di restauro e conservazione, dei quali non è possibile dimenticare i concetti che la cultura del settore ha dibattuto per secoli.
Merita, a mio avviso, riflettere su queste considerazioni per il fatto che sono ricorrenti e spesso condivise da operatori pubblici e privati, da tecnici progettisti e dai proprietari di monumenti, di complessi architettonici o borghi di edilizia minore. Sovente queste figure, coinvolte in vario modo nel progetto e nel cantiere, non accettano limiti, indirizzi o freni alla loro possibilità di operare sia in termini architettonici sia di gestione economica e imprenditoriale. Molti architetti antepongono la creatività al restauro privilegiando il progettare nuove forme, anche in contesti vincolati, alla reale verifica della loro necessità e molti proprietari non riconoscono a chi deve gestire la Tutela la possibilità di entrare nel merito dei loro beni (qui i parroci sono in prima fila!), per non parlare degli amministratori pubblici che a livello locale o regionale si trovano a gestire monumenti, siti paesaggistici o complessi storici di grande importanza e che non capiscono le ragioni di dinieghi e bocciature.
Le motivazioni sono sempre le stesse, si sostiene che la storia ha sempre trasformato gli oggetti del passato e che quindi anche oggi è legittima qualsiasi modifica, che all’architetto non devono essere posti vincoli o limiti alla progettualità e alla sua fantasia, e che l’immobiliarista deve avere sempre meno freni e burocrazia altrimenti non c’è sviluppo economico, c’è l’abbandono, il degrado e la rovina.
Ma chi è all’origine di tutti questi mali? Chi è l’istituzione che secondo costoro arbitrariamente vincola, blocca e immobilizza il patrimonio architettonico e il paesaggio trascinandoli nell’abisso? Chi contrasta la valorizzazione, il lavoro e quindi l’economia?
Naturalmente sono le Soprintendenze!
Sono le Soprintendenze che immobilizzano il patrimonio storico, che bloccano le iniziative imprenditoriali, che impongono progettazioni castigate e che sono contro lo sviluppo e la storia. Secondo questo sentire diffuso sono le Soprintendenze che arbitrariamente richiedono compatibilità tra il vecchio e il nuovo uso degli edifici, oppure che pretendono inutili attenzioni progettuali in fase di analisi e sintesi oppure ancora pongono limiti stretti alle modifiche formali e volumetriche. Tutto ciò non viene digerito ma inteso come un’arbitraria interferenza nella sfera del privato, come un’insopportabile intromissione.
Ne consegue che le bocciature non sono quasi mai capite e vengono criticate, contrapponendo motivazioni che nulla hanno a che vedere con il restauro e accusando queste Istituzioni di ottuso integralismo, di non essere al passo con i tempi e di moltiplicare la burocrazia, mentre non si capiscono il senso e i nessi diretti con la tutela del patrimonio. Non c’è un minimo di autocritica, ossia non si cerca di capire cos’è il restauro e i suoi concetti di base, la sua evoluzione storica e recente, non ci si chiede quali siano le ragioni profonde della Tutela, le sue particolari metodologie operative, le modalità di rappresentare i progetti, ecc.
Certo, le Soprintendenze hanno i loro difetti, sono fatte di uomini e donne che possono a volte sbagliare e essere più o meno preparati, più o meno veloci nell’istruire le pratiche e più o meno aperti nel concepire proposte e soluzioni. Ancora, soprattutto nel caso dei funzionari architetti, che sono la spina dorsale perché hanno competenza, il concetto di tutela è coniugato in ognuno di loro, come in tutti noi, in modo personale, filtrato dal proprio sapere e dalla propria esperienza pur nell’ambito della cultura italiana del restauro e della normativa che la regola. Quindi possono esserci delle sfaccettature diverse in ciascuno di loro, e anche una non omogeneità di valutazioni, ma fanno parte della singola interpretazione che ognuno dà della realtà.
Però, si deve anche riconoscere alle Soprintendenze la tutela del paesaggio e dei beni architettonici in Italia, si deve dare merito alle Soprintendenze e a quel risicato numero di funzionari di aver bloccato speculazioni, scempi e devastazioni di monumenti che per decenni si sono infranti sulle loro dighe. Non è facile far capire al mondo degli operatori privati e della politica che i valori della permanenza dei beni storici e del loro sviluppo compatibile e non prevaricante necessitano anche a volte di scelte scomode e impopolari.
Certo, si poteva fare di meglio e senz’altro si poteva fare di più. Però, proviamo a immaginare: come sarebbe stata l’Italia se non ci fossero state le Soprintendenze? Che paesaggi, che monumenti, che centri storici avremmo ora? Sicuramente villettopoli e capannopoli sarebbero arrivate al Colosseo e in Piazza San Marco, la maggior parte dei monumenti avrebbe conservato sì e no qualche elemento dando spazio a vasti centri commerciali, a condomini in ferro e vetro, per non parlare della creatività e della libera composizione architettonica che si sarebbe espressa al meglio, creando forme meravigliose, come quelle che caratterizzano tutte le periferie delle nostre città, ma cancellando storie e materie che hanno segnato il nostro Paese in migliaia di anni. Che strutture avremmo oggi? Splendidi solai in c.a. o elementi metallici a vista che reggono facciate senza più architettura sul retro, oppure reticoli di impianti tecnologici con qualche setto murario o pavimento storico appeso come un quadro, il resto si può immaginare.
Di sicuro sono scogli difficili da superare per chi non è aduso al restauro, perché un progetto di restauro non s’improvvisa se non si hanno le basi, non ci si può inventare un rilievo materico e un’analisi del degrado secondo le Normal o un progetto di conservazione se non si è tanto studiato.
E così questo mondo, che non può e non potrà mai capire tali richieste, perché abituato a commercializzare o progettare bifamigliari, si scaglia con forza contro le Istituzioni per la Tutela criticandole per il fatto stesso di esistere. Invece, il loro ruolo è stato ed è fondamentale così come l’essere Istituzione dello Stato, che si pone su un piano diverso e più autorevole rispetto alle amministrazioni locali. A questo proposito non pochi sono i timori in vista delle autonomie regionali che potrebbero invalidarne o sminuirne il ruolo per la comprensibile influenza che potrebbero avere presidenti regionali, sindaci o assessori quando gli interessi in gioco sono alti.
Certo i Soprintendenti e i loro funzionari parlano un linguaggio diverso da chi progetta e realizza il nuovo su terreni da edificare, da chi pratica urbanizzazioni o calcoli di nuove strutture in c.a. , hanno e pretendono una cultura diversa rispetto a chi edifica bifamigliari o centri commerciali. Per interfacciarsi con loro in termini positivi è necessario da un lato conoscere il restauro e i concetti sui quali esso si fonda e dall’altro sapere come si articola una conoscenza preliminare e come la sintesi deve tenerne conto.
Sono modalità espressive, sensibilità, modi di intendere il rapporto con l’architettura storica che nascono dallo studio specialistico, da una formazione particolare che chiaramente chi non è del mestiere non può capire. L’architetto che si occupa di restauro svolge una professione specialistica diversa da quella che svolge un architetto del nuovo o un urbanista.
E’ inevitabile quindi che chi non possiede questa cultura vada a sbattere contro un muro del quale non percepisce confini e ragioni di esistere e, quindi, lo critichi ferocemente sentendosi impotente o addirittura leso nei propri diritti. Ma è giusto che sia così. E’ giusto che sia l’incompetenza a infrangersi contro chi è demandato a conservare il patrimonio culturale, che è patrimonio di tutti e non viceversa, perché la Soprintendenza non è contro di noi ma è dalla nostra parte in quanto difende la nostra cultura, l’integrità dei nostri monumenti dalla futilità di mode passeggere, dalla speculazione politica, dall’autocelebrazione di progettisti che pretendono di intervenire in un ambiente storico come si può intervenire in una periferia urbana.
Chi si interessa di restauro, chi ha una cultura specialistica e formata per progettare e gestire gli edifici del passato, così come per i delicati paesaggi costruiti, sa bene che in questo mondo c’è un modus operandi particolare nei confronti della storia, che interpreta i segni delle materie e i linguaggi delle architetture per leggerne i significati e trovare di volta in volta la strada che garantisce la conservazione del bene, la compatibilità con il nuovo uso, elabora interventi tecnici giustificati da stati di necessità e non gratuiti, non inserisce gli impianti in modo devastante e non esegue consolidamenti statici sostitutivi e invasivi delle vecchie strutture.
Sicuramente aggiunge, e per questo trasforma, perché nulla resta immutato anche nelle banali operazioni di manutenzione ma è sulla qualità, spessore e reale necessità di queste aggiunte che emerge tutta la differenza tra le posizioni.
Naturalmente non siamo in Nuova Zelanda o in Australia, dove il territorio è tutto da costruire e i valori del paesaggio sono qualche canguro o qualche pecora o quelli della storia sono al massimo un villaggio di minatori del secolo scorso. Siamo in quel paese che il mondo c’invidia e che in centinaia di milioni viene da secoli a visitare perché ha paesaggi culturali che trasudano storie stratificate, valori monumentali, architettonici e materiali seminati in ogni angolo, che non aspettano di essere trasformati ma conservati. Le Soprintendenze sono lì per questo.
La conclusione mi è difficile perché se da un lato credo in quanto ho detto sopra dall’altro ritengo che il cortile di Biagio Rossetti non sia un quadro bianco che aspetta ansioso il gesto creativo di un artista, non sia uno sfondo scenografico ma un contesto monumentale da tutelare ed è corretto che un capannone progettato in un chiostro rinascimentale venga respinto perché incompatibile, ma non è andata proprio così.