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C'è cura e cura
Come si fa a spiegare a chi ignora praticamente tutto il ruolo della conoscenza, il rapporto tra stratificazione storica e conservazione, il riuso compatibile e a misura, l’importanza di conservare la cultura materiale del passato che è testimonianza unica e irripetibile? da dove si incomincia?
Così ho cercato in modo molto elementare di partire da molto lontano e riflettere assieme sul concetto di cura in medicina, che possiede forti analogie con l’attività di chi opera su architetture storiche o su paesaggi stratificati e particolari come sono spesso quelli del nostro Paese. Bisognerebbe studiare e avere l’umiltà di riconoscere che l’architetto tuttologo a volte va in crisi quando vuole invadere il campo di altri senza averne le competenze professionali, la cultura e la preparazione.
Is it the concept of "nursing" applicable in architecture?
How do you explain to someone, who doesn’t have the knowledge, about the relationship between historical stratification and preservation in regard to maintaining the material culture of the past as testament to the old in our present? Where do you start from?
So I started from something very elementary which was the idea of looking at nursing in medical science. The latter science has, somehow, many similarities with the profession of architects who operate in the area of restoring historical buildings. In particular in buildings that the Italian land is replete with. It is necessary that architects must have a proper cultural preparation and professional knowledge when dealing with these topics.
Sono rimasto basito in un recente incontro con un collega allorquando ha iniziato a illustrare i suoi criteri e le sue convinzioni relativamente alla cura, cioè al progetto, che intende sviluppare su un monumento vincolato in un contesto paesaggistico anch’esso vincolato.
Si tratta di un bravo, affermato e colto architetto, conosciuto in Italia e anche all’estero, associato a un grande studio in un’importante città e che opera da decenni costruendo architetture di alta qualità.
All’incontro si è presentato con un corposo book che, mi ha detto orgoglioso, raccoglie gli studi per arrivare al render di progetto. Convinto si trattasse di rilievi metrici, magari laser scanner, studi storici oppure analisi costruttive sulle tecniche edificatorie o di altre conoscenze originali relative a quel ricco contesto monumentale, assai incuriosito, mi sono apprestato ad ascoltare con attenzione.
Ci arricchisce tutti lavorare in collaborazione perché allarga gli orizzonti, rompe gli schemi a volte ripetitivi ai quali siamo abituati e permette di vedere i problemi in modo diverso; ero in realtà molto interessato al suo punto di vista e al metodo con il quale aveva messo in sequenza conoscenza e cura…
Ma dalla prima pagina sono trasalito, niente di tutto quel mondo e di quella cultura era stato preso in considerazione! Il magnifico book iniziava con uno schizzo realizzato a mano e ingrandito, nel quale sintetizzava l’idea iniziale, che era legata a delle sue personali emozioni, del tutto estranee all’edificio e al suo contesto.
Tramite lo schizzo l’idea creativa veniva sviluppata, prendeva forma architettonica e si sovrapponeva gradualmente all’architettura storica esistente e al paesaggio particolare di quella delicatissima area. In pratica, aveva l’effetto di una macchia d’inchiostro che cancellava progressivamemte, pagina dopo pagina, le planimetrie, i prospetti e il paesaggio.
Il percorso di analisi e avvicinamento al progetto, analogamente alla creazione della nuova architettura, privilegiava l’idea, la fantasia dell’architetto e la sua creatività; non esisteva alcuna forma di conoscenza del contesto, della sua evoluzione storica e materiale, dello stato di conservazione sulla quale il restauro basa, da sempre, la cura che deve essere personalizzata su ogni malato. Che fossimo in quell’area geo-storica e l’edificio fosse di quell’epoca non importava nulla, era irrilevante e, quindi, non era rilevato alcun aspetto architettonico, costruttivo e storico della preesistenza.
Con candida innocenza il bravo architetto ha continuato l’illustrazione arrivando alle soluzioni spaziali e formali, che si libravano alte rispetto al distributivo e si sovrapponevano a strutture portanti verticali e orizzontali come se fossero concepite in un laboratorio creativo distante dal contesto fisico di quegli edifici. Quasi affascinato da quella leggerezza assoluta su ciò che si riferisce al restauro e stupito da come si possa arrivare a una certa età ignorando i fondamenti di una disciplina che nell’ambito dell’architettura non è poi così marginale, seguivo le considerazioni sul passaggio dallo schizzo all’idea creativa passando per l’intuizione (secondo lui) artistica. Forse ciò che mi ha lasciato maggiormente stupefatto è stata l’incoscienza assoluta di tutto ciò che si riferisce al restauro e al rapporto tra conoscenza e cura perché, se manca questo rapporto manca la bussola per ogni scelta, per ogni passaggio e per ogni soluzione.
C’è da dire che le considerazioni e le idee messe in sequenza erano da un lato di alta qualità, intelligenti nel loro articolarsi e nei passaggi dalle forme pensate a quelle disegnate e dall’altro lato dirompenti, distruttive e prive di sensibilità riguardo al contesto monumentale che restava in secondo piano.
Alla domanda su cosa pensavo di quel progetto ho risposto in modo diretto e senza mezze misure con un’altra domanda chiedendo se secondo lui io, che non ho mai fatto un progetto d’interior design, che non ho esperienze operative nel campo dell’arredamento, che non conosco soluzioni tecniche, ricerche applicate e prodotti del mercato, potrei garantire ad un mio committente un lavoro di qualità. Se credeva che io potessi affrontare un progetto complesso di un albergo o di arredamenti particolari e di nicchia senza rischiare una figuraccia quando non una denuncia per errore progettuale. Sicuramente mi farei affiancare da colleghi specialisti del settore, sentirei degli esperti, avvierei collaborazioni per certe soluzioni di dettaglio ma anche per tenere la bussola dell’intero progetto.
Ma nel restauro, invece, si cimentano tutti con grande facilità, architetti del nuovo, ingegneri che nel loro percorso di studi hanno saltato a piè pari storia, rilievo e restauro.
E nel dire ciò sentivo che alcuni passaggi non erano condivisi.
Come si fa a spiegare a chi ignora praticamente tutto il ruolo della conoscenza, il rapporto tra stratificazione storica e conservazione, il riuso compatibile e a misura, l’importanza di conservare la cultura materiale del passato che è testimonianza unica e irripetibile? da dove si incomincia?
Così ho cercato in modo molto elementare di partire da molto lontano e riflettere assieme sul concetto di cura in medicina, che possiede forti analogie con l’attività di chi opera su architetture storiche o su paesaggi stratificati e particolari come sono spesso quelli del nostro Paese. Poi ho messo in luce le diverse declinazioni del concetto di cura nel restauro, che dipendono in ognuno di noi dalla formazione, dalle proprie convinzioni e dalla cultura storica, filosofica e critica, aspetto questo non così influente nella medicina, che è disciplina scientifica.
Infine, ho detto che la cura può essere intesa in due modi.
Ce n’è uno più tecnico, ossia inteso come terapia diretta, che rimedia a malattie scientificamente individuate. In questo caso l’edificio è paragonato alla persona umana che può aver avuto storie sovrapposte, sofferenze o malattie di varia natura, interventi clinici più o meno riusciti e che nel monumento possono significare utilizzi impropri, abbandoni oppure l’aggressione di degradi o dissesti di varia natura. Così, sentendomi banale e anche scontato, ho cercato di paragonare il bravo medico che pretende una diagnostica mirata e attenta, al corretto restauratore che deve sviluppare una lettura capillare dell’intonaco o delle pellicole sulle quali opera, altrimenti semplicemente non sa quello che fa. Sono arrivato quindi in punta di piedi all’architetto restauratore, diligente professionista, che quando si confronta con un monumento, un sito storico o un paesaggio prima di avventurarsi nel progetto imposta rilievi, avvia ricerche storiche, analisi materiche del degrado e del dissesto ma soprattutto sa fare sintesi delle conoscenze per usarle in modo opportuno nel progetto.
In questi passaggi, sicuramente elementari, il collega mi ha seguito condividendo che la cura del malato, sia esso architettura o essere umano, deve basarsi sempre, in ogni caso e a qualsiasi latitudine sulla conoscenza dello stesso, delle sue storie e che, di conseguenza, nel restauro di qualità elevata esiste una proporzionalità diretta tra conoscenza e qualità della cura.
Ma, ho aggiunto, esiste un’altra idea di cura che può essere intesa come azione di chi si prende cura di qualcuno per garantirgli uno sviluppo controllato e positivo nel tempo, per valorizzare i caratteri e le potenzialità nell’ambito della compatibilità. Il paragone con la madre che si prende cura del figlio per farlo crescere nel modo migliore è quasi abusato nel restauro tanto è stato da sempre utilizzato sia nei contesti pratico-operativi sia in quelli teorico-metodologici.
Qui c’è stata più difficoltà con il mio ignaro uditore, perché sono entrati in gioco concetti complessi quali il tempo che accompagna la crescita, i tempi lunghi delle architetture, le trasformazioni storiche passate e presenti e soprattutto il giudizio storico e quello immediatamente successivo di carattere estetico che inevitabilmente deve formulare chi si prende cura di un edificio nel suo evolversi temporale. Terreno complicato questo, dove gli studiosi di teoria del restauro hanno scritto le pagine più dense e più belle formulando teorie, punti di vista e intendimenti critici soprattutto riguardo all’operatività o meno del giudizio critico.
Ho sottolineato quindi la complessità, mettendo in risalto quante discipline, non solo di carattere tecnico-scientifico, intersecano le riflessioni sul restauro e possono quindi orientare la cura: la storia dell’architettura e delle teorie sul restauro, la critica, la filosofia, l’estetica, ecc. Ma a queste si aggiungono riflessioni fondamentali su quale storia serve al restauro quella tradizionale degli stili e delle forme o quella dei metodi costruttivi e delle tecniche? E perché la prima o perché la seconda e così via.
“Ma allora che devo fare?” mi ha chiesto dopo un paio d’ore di appassionante chiacchierata. Devi riflettere su quale cura vuoi adottare e, di conseguenza, in che direzione orientare la conoscenza in modo coerente con la cura, perché la coerenza tra analisi e sintesi è forse l’aspetto più importante nella progettazione dei restauri.
Però, ho concluso, c’è anche un pericolo nel rapporto tra conoscenza e progetto, che vale tanto per il restauro tanto per l’architettura del nuovo, perché a volte può accadere che la conoscenza prenda il sopravvento tant’è che il grande Alvar Aalto metteva in guardia i progettisti dicendo che: “C’è molta architettura che non va più in là dell’analisi sebbene sia la sintesi la cosa della quale ha più bisogno”.
“E allora?”, mi ha detto un po’ sconsolato. Allora bisognerebbe studiare e avere l’umiltà di riconoscere che l’architetto tuttologo a volte va in crisi quando vuole invadere il campo di altri senza averne le competenze professionali, la cultura e la preparazione.
Ho cercato un modo elegante per dire: lasciate fare questo mestiere a chi lo sa fare.