ISSN 2283-7558

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L'EDITORIALE

La pesante eredità degli intonaci storici

In apertura a questo numero monografico sul restauro degli intonaci propongo alcune riflessioni particolari con lo scopo di estendere la percezione del tema. È un modo nuovo di affrontare il problema perché riporta piccoli brani tratti pubblicati negli ultimi numeri di questa rivista. Lo scopo è molteplice: stimolare la rilettura di quei saggi, sottolineare come il tema sia sempre assai complesso, che non c’è mai una soluzione unica valida in ogni contesto e che la cultura del restauro, pur nella specificità di ognuno, parla una lingua unica.

THE INHERITANCE OF PLASTERS

For this monographic issue about restoration of plaster I will suggest some specific considerations with the aim to put more attention to the topic.
It is a new approach to deal with the problem because it brings back some articles that were published in the last issues of this periodical.
The goal is various: encourage the reading of these articles and underline the complexity of this problem. In the restoration, there is never a unique solution.




Oggi trattare il tema del restauro delle superfici intonacate è assai più difficile rispetto a qualche decennio fa e ciò per due motivi: il primo perché si è sviluppata una letteratura ricchissima che ha coperto ogni aspetto scientifico - teorico e tecnico, operativo, diagnostico, commerciale, ecc. – il tema è troppo ampio ed è complesso riassumerne gli aspetti culturali, il dibattito, le problematiche tecniche, porre in primo piano dei casi studio piuttosto che altri, criticarne o trascurarne altri ancora. In secondo luogo perché, nell’ambito del restauro conservativo, sono moltissimi, diversi e articolati i casi di buona pratica nei quali ognuno coniuga in modo personale teorie e soluzioni, analisi e progetto, cosicchè non c’è un modo unico di dare risposta al problema. Ciò è anche dimostrazione che nel settore, la pluralità di culture è ricchezza e che la strada del manuale, del prontuario, del piano del colore, della replica storica acritica sono vie che impoveriscono e riducono un firmamento complesso.

Non molti anni fa c’era qualche studio isolato, i convegni di Bressanone e pochissime esperienze di concreta conservazione. Per questo motivo, non potendo riassumere 30 anni di studi e pubblicazioni, cerco qui un modo nuovo di proporre alcune riflessioni in forma di premessa a questo numero monografico; un modo che, non volendo semplificare o ridurre, estenda la percezione del tema e costituisca stimolo al lettore anche per rivedere le pubblicazioni da cui sono tratte le citazioni che propongo.

La novità sta nel fatto che ripercorro brevi passi di saggi di vari autori comparsi su alcuni recenti numeri di questa rivista. Ricordo che rec_magazine ha un pubblico assai disomogeneo e vuole parlare ai professionisti liberi e alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, agli operatori industriali, ai costruttori e agli artigiani, agli studenti e ai professori, agli specializzati. Non tutti seguono con continuità questa rivista e può essere un aiuto suggerire alcune riflessioni già comparse nel recente passato.

L’idea è scaturita da una rilettura di quegli articoli e vuole tentare di stendere un filo rosso tra i molti studiosi che si occupano del problema; il mio è un tentativo di sottolineare come molte voci parlino la stessa lingua, vuole essere un collegamento che è culturale prima che tecnico e sulle idee prima che sul progetto senza nulla togliere all’importanza di quest’ultimo.

Riguardo alla conservazione degli intonaci è da dire che oggi “Purtroppo il quadro della pratica del restauro e della manutenzione delle superfici intonacate e del colore, in Italia e ancor più all’estero, è nel suo complesso deludente. Gli interventi sono spesso grossolani ed errati, anche sotto il profilo puramente tecnico; altre volte sono di migliore qualità, ma comunque troppo estesi e pesanti, immemori di uno dei fondamentali criteri del restauro quello del -minimo intervento- Nella maggior parte dei casi, rispettando le prudenziali raccomandazioni della sempre valida Carta del Restauro del ‘72 e, più specificatamente, le preziose e concrete proposte di Laura e Paolo Mora sarebbe stato sufficiente- ai fini conservativi- mantenere, consolidare, rappezzare, le superfici esistenti, proteggerle forse delicatamente con una velatura, senza rifare, in tutto o in parte gli intonaci e le loro coloriture anche se in parte svaniteGiovanni Carbonara, recmagazine158.

Sono ancora pochi coloro che hanno cultura e sensibilità per ascoltare, come “ci insegna Paul Valery che certe facciate sono mute, sorde, altre parlano fluentemente, mentre, altre ancora, che sono le più rare, cantano. La grande varietà delle forme, dei materiali, delle finiture, dei colori, degli aggetti e delle decorazioni rende unico questo paesaggio considerato giustamente come una caratteristica unica e preziosa. Ogni epoca storica lascia una traccia sulla superficie, ogni progettista opera con una sensibilità diversa, ogni nuovo materiale contribuisce a questo palinsesto articolato e stratificato, dove si aggiungono i segni dell’azione dei nostri predecessori. Inoltre il segno del tempo passa e lascia le sue tracce nelle patine, nella polvere, nelle ossidazioni nelle croste che si aggiungono sulle superficiMarco Ermentini, recmagazine164

Quindi “Non c’è restauro che non debba fare i conti con gli ultimi millimetri di materia, quelli più esposti, tanto alla vista, quanto agli agenti atmosferici. Non c’è architetto-restauratore che non sappia che in quei millimetri si gioca una partita estremamente importante che implica forti convincimenti teorici, conoscenza profonda dei materiali e coerenza nell’adozione delle metodiche più adatte per raggiungere l’esito progettatoRiccardo Dalla Negra, recmagazine165

Sono problemi ardui e su questi non possiamo esimerci dal ragionare, né possiamo rifugiarci in un tecnicismo più o meno ‘neutro’ ma che, a ben vedere, non potrà mai essere tale. Le superfici sono e restano senza alcun dubbio anche i ’luoghi del degrado’, anzi del degrado più virulento e impetuoso ma non si può per questo dimenticare, come troppo spesso avviene, che si tratta anche, come chiaramente afferma Amedeo Bellini, di luoghi di testimonianza storica, per i segni del tempo e dell’agire umano che su di esse si sono, nei secoli, depositati e dei luoghi, se non più artistici-a causa della gravità dei danni subiti- comunque estetici, per quei valori figurativi e, se vogliamo, pittoreschi acquisiti” Giovanni Carbonara, recmagazine158.

Ciò premesso è da ricordare che “Sono ormai lontani gli echi del dibattito che, tra gli anni ottanta e novanta, ha appassionato i critici del settore sul degrado della pietra esposta all’esterno, sui prodotti più idonei a contrastare l’alterazione, e sui problemi di presentazione, cioè dell’immagine finale dell’intervento di restauro. Luca Rinaldi, recmagazine169.

“Chi ha avuto la fortuna di partecipare come studente, docente o collaboratore ricorda che in quel periodo, negli anni ’80 e ‘90, in alcuni ambienti universitari e tra pochi soprintendenti c’era un dibattito straordinariamente vivo attento ai contributi che provenivano da diversi campi disciplinari. Il restauro guardava all’archeologia ma anche alla chimica industriale alla diagnostica non distruttiva, alla storia della critica, a quella delle tecniche costruttive non escludendo l’approfondimento sui teorici del restauro che un secolo prima parevano anticipare cambiamenti e riletture. Iniziava proprio lì un modo diverso di interpretare il restauro che un po’ alla volta riusciva a maturare una visione più ampia e più conservativa.” Cesare Feiffer, recmagazine161.

Sono poi seguiti anni di radicalizzazione ideologica e contrapposizioni tra elogio della rovina ed elogio del ripristino, cui non sono secondarie le riflessioni sul concetto stesso di anastilosi, per un verso rifiutato a priori, per l’alto riassorbimento nell’ambito delle ricostruzioni a l’idéntique.” Riccardo Dalla Negra recmagazine164

Quei decenni vedevano emergere due posizioni: da un lato “un binario diretto verso la Conservazione, all’interno del cui scartamento si confrontavano vari indirizzi teorici, anche divergenti, ma pur sempre tradotti operativamente attraverso un - progetto di restauro architettonico -. Oggi la disciplina sembra delegare gli aspetti progettuali (…) al di fuori di se stessa e segnatamente alla composizione architettonica (…) dimenticando che ci si differenzia da essa in primo luogo l’uso non strumentale delle preesistenze, in secondo luogo la consapevolezza che l’indagine storico processuale e l’attività critico-creativa sono consustanziali nel restauro”. Dalla Negra recmagazine167.

“Il fatto è che adottando una linea sostanzialmente conservativa, si ottengono risultati di poca o nessuna rilevanza visibile, oltre che di scarsa risonanza sui mass-media. Infatti, a lavoro compiuto, l’edificio sembrerà, nella maggior parte dei casi, uguale a prima, non toccato (e in effetti avrà subito il minimo possibile di alterazioni materiali): un sollievo per chi ha veramente a cuore la sorte del patrimonio storico artistico ma, per altri versi, qualcosa che nel mondo produttivistico e mercantile odierno apparirà di certo sconcertante se non assurda” Giovanni Carbonara, recmagazine170.

Dall’altro lato “S’è affermata, nella sostanza, un’operatività semplificata che fonda sopra un uso improprio della storia; un metodo schematico, facile, ripetibile, subito gradito a certi amministratori, a certe imprese o a certi progettisti molto più di una opzione conservativa perché senza andare troppo per il sottile, garante di minore impegno critico e di maggiori possibilità di ostentare i ben evidenti esiti del lavoro compiuto. Anche i cosiddetti “piani del colore” non sono esenti dai rischi di tale schematico riduzionismo, in essi rafforzato da una latente concezione urbanistica generalizzante e tipologicizzante, la quale tende a uniformare ciò che, il più delle volte è nato difforme e che, dalle vicende storiche, è stato segnato in modo unico e irripetibile. Giovanni Carbonara, recmagazine158.

A ciò si aggiunga il malinteso di fondo “ribadito dall’ultima riforma ministeriale che ha separato la tutela dalla gestione (valorizzazione) … A seguito di questa scissione si è dunque fatta strada pian piano tra gli addetti ai lavori come nell’opinione pubblica la convinzione che una cosa fosse la tutela, abbandonata alla burocrazia delle soprintendenze, agli architetti conservatori”, ai restauratori, agli storici ed altro la valorizzazione-riuso, governata da enti e istituzioni locali e dal Mercato, sfruttando non di rado la firma di qualche archistar …Luca Rinaldi, recmagazine167.

Ciononostante uno sparuto drappello di architetti sensibili al restauro, di specializzati, di soprintendenti e di ricercatori si riconosce ancora nel monito di Dezzi Bardeschi,

quando nel lontano ‘82 diceva che “Relativamente al tema possono essere ben diverse le motivazioni che si vorranno escogitare, ma alla fine le operazioni da compiere per conservare e preservare un intonaco al suo posto sono esattamente le stesse sia che si tratti -che so- del Cenacolo di S. Maria delle Grazie o della cappella Pazzi che della più modesta casa popolare. Poichè se la risposta alla domanda precedente (si è o no conservato nella pratica del lavoro quel contesto materico?) non fosse positiva, quella che verrebbe improvvisamente meno -come diceva Benjamin- sarebbe l’autenticità della cosa, e dunque la sua autorevolezza e credibilità” (M. Dezzi Bardeschi, “La materia e il tempo”, in recuperare, n. 2, nov-dic 1982, p.94). Cesare Feiffer, recmagazine161.

E’ un pensiero questo che per maturazioni successive vorrebbe diventare “una nuova poetica del riuso, aperta a forme delicate, reversibili, intese quando si può, come temporanee e comunque primariamente attente alla tutela.” Salvatore Settis, recmagazie167.

In quest’ambito si riconosce che per produrre progetti di qualità nei confronti di superfici storiche “…bisogna conoscere e la conoscenza riguarda la cultura specifica del restauro, le particolarità della fabbrica storica, delle tecniche preindustriali e degli interventi definiti compatibili. Solo così si rispetta l’autenticità dei contesti storici; e l’autenticità è semplicemente tutto”. Cesare Feiffer, recmagazine168

A questi problemi oggi se ne aggiungono drammaticamente altri, quelli dei bonus legati al risparmio energetico che comportano isolamenti interni ed esterni degli edifici storici “Si tratta di una tecnica destinata agli edifici degli anni 60/70 come tanti condomini e villette costruite senza nessun criterio legato al consumo di energia. Il cappotto che funziona bene per le nuove costruzioni, non produce particolari vantaggi sui vecchi edifici che hanno caratteristiche totalmente differenti. Anzi il suo uso è di solito negativo e può ingenerare molti problemi” Marco Ermentini, recmagazine164

Il pericolo è dato dal fatto che il tecnico e “il legislatore che ha formulato queste terribili norme, volute dalle grandi multinazionali che producono stirene, polistirolo e anche vetro camera, non hanno nessuna sensibilità per i valori storici e architettonici, non hanno attenzione per le quinte edificate, per i centri antichi e per i borghi” Cesare Feiffer, recmagazine165

Ma non solo “Nel nuovo pacchetto di direttive europee in materia di efficienza energetica in edilizia, e soprattutto nella attuale rifusione della UE 31:2010, si evidenziano alcuni aspetti di criticità in merito all’approccio alla riqualificazione energetico-ambientale dell’edilizia storica e più specificatamente a quella sottoposta a tutela. In primo luogo si evidenzia per la salvaguardia degli edifici storici tutelati i quali, secondo le nuove direttive, non sarebbero più esentati dal rispetto dei requisiti minimi di prestazione energetica” Giovanni Litti, recmagazine169.

“Se l’obiettivo è la prestazione, la strada per raggiungerla diviene la ricerca della migliore tecnologia oggi disponibile, se la finalità è la conservazione allora la logica si ribalta: all’interno delle tecnologie disponibili va trovata quella che consente il miglior equilibrio tra esigenze di tutela ed esigenze prestazionali”. Valeria Pracchi, recmagazine161.

“Perché è solo conservando questi beni che si implementa anche il loro valore economico e la ricchezza del nostro paese è quella di avere singolarità e specificità autentiche e non quella di avere superfici plastificate o edifici storici in Classe “A”. Cesare Feiffer, recmagazine165.