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Dal dire al fare
Valorizzare non è ricavare a breve reddito economico, non è la rendita immediata che si può trarre dai beni culturali, come purtroppo sostiene molta politica o anche qualche addetto ai lavori. In pratica non sono i biglietti venduti, non è il maggior valore economico dei prodotti messi in esposizione nella cornice di una villa antica, non è il numero delle presenze alberghiere nelle città d’arte ma è un qualcosa di più fine, più articolato e più complesso. Troppo spesso si banalizza e la si confonde con la mercificazione immediata ma una valorizzazione della cultura così intesa è attività profonda e colta che, come sostiene Michele Trimarchi s’indirizza a facilitare e incoraggiare l’estrazione del valore culturale da opere d’arte, da un monumento, un palazzo, un borgo storico, dalle collezioni museali, etc.
Action speaks louder than words
Very often the politics and institutions’ s approach behind the management of any cultural heritage, is to get a profit under a short amount of time.
Yet, there is something more articulated and complex than just being focused on the numbers of the tickets sold or to commercialise a product under the settings of an old beautiful Villa.
Too often, that can be confused with commercialisation of culture whereas, as Michele Trimarchi says, doing so can be a good way to add value to the culture it self.
Valorizzare il patrimonio storico in modo compatibile; realizzazioni, opportunità e casi concreti. Questo è il titolo di un convegno molto affollato che si è tenuto il 6 giugno a Venezia nella prestigiosa sede della Soprintendenza e del quale si terrà un rendiconto più completo nel prossimo numero di questa rivista dando spazio alle idee e alle realizzazioni che sono state esposte dai vari relatori.
E’ stato un momento di approfondimento di straordinaria intensità, che ha avuto il duplice scopo da un lato di riflettere sul concetto di valorizzazione del patrimonio culturale e soprattutto sul limite di compatibilità che è fondamentale per capire ciò che è lecito e ciò che è prevaricante; dall’altro lato è stato importante perché ha consentito di trasferire idee e proposte originali, innovative e a misura del contesto storico architettonico ad altre realtà per far sì che possano essere replicate o quantomeno servire da incentivo e stimolo.
Come ho avuto modo di osservare qualche editoriale fa, nel campo del restauro e del riuso del patrimonio architettonico quello della valorizzazione dei beni culturali è un argomento sul quale si discute molto e a tutti i livelli. Non solo il mondo della cultura ma anche chi vive fuori da questa, e a volte molto lontano, è consapevole delle sue potenzialità e le proposte che si registrano sono di ogni genere: aumentarne il godimento, agganciarci filiere di varia natura, proporre strategie per il riuso, o più spesso al sopruso o all’abuso; si tratta di un tema che ricorre tra chi ne sa e chi ne ha solo sentito parlare da altri.
Per questo, per il prevalere spesso di posizioni prive di fondamenti culturali, di idee stravaganti e più legate all’economia che alla cultura, nella presentazione del convegno ho voluto iniziare da una lucida riflessione di un colto soprintendente per il quale la valorizzazione del patrimonio storico e architettonico è creare nuove forme di cultura che moltiplicano a loro volta nuovi modi di godimento della stessa. Valorizzare non è quindi ricavare a breve reddito economico, non è la rendita immediata che si può trarre dai beni culturali, come purtroppo sostiene molta politica o anche qualche addetto ai lavori. In pratica non sono i biglietti venduti, non è il maggior valore economico dei prodotti messi in esposizione nella cornice di una villa antica, non è il numero delle presenze alberghiere nelle città d’arte ma è un qualcosa di più fine, più articolato e più complesso. Troppo spesso si banalizza e la si confonde con la mercificazione immediata ma una valorizzazione della cultura così intesa è attività profonda e colta che, come sostiene Michele Trimarchi s’indirizza a facilitare e incoraggiare l’estrazione del valore culturale da opere d’arte, da un monumento, un palazzo, un borgo storico, dalle collezioni museali, etc.
Così, interpretando la valorizzazione come creazione di nuove forme di cultura e sull’estrarre il valore culturale, il convegno ha fornito i suoi contributi e dato concrete indicazioni.
La ragione per la quale ho insistito su questo aspetto è perché la valorizzazione deve guardarsi paradossalmente dai … valorizzatori, e ciò non riguarda solo le architetture maggiori o minori, dove la distanza tra valorizzazione e speculazione è molto breve, ma anche e soprattutto riguarda il paesaggio nelle sue delicate articolazioni.
Riguarda i contesti ibridi, le aree produttive dismesse di archeologia industriale e tutte quelle forme di cultura che hanno estensione nel paesaggio antropizzato e che vanno dall’eno-gastro al ciclo-pedo, particolarmente sviluppate nel nostro Paese che, per fortuna e per merito (di altri), sono ancora numerose e integre. Un paese che, come dice Salvatore Settis, è caratterizzato da tante e sovrapposte culture che hanno plasmato le architetture e il territorio attraverso secoli, lasciando testimonianze e segni sovrapposti che si devono capire e cercare di conservare, che si materializzano in quello che Settis ha definito “la forza del «modello Italia» [che] è tutta nella presenza diffusa, capillare, viva di un patrimonio solo in piccola parte conservato nei musei, e che incontriamo invece, anche senza volerlo e anche senza pensarci, nelle strade delle nostre città, nei palazzi in cui hanno sede abitazioni, scuole e uffici, nelle chiese aperte al culto; che fa tutt’uno con la nostra lingua, la nostra musica e letteratura, la nostra cultura.”1
Corriamo un rischio concreto quando la valorizzazione della cultura persegue solo il fine economico, perché non ha limiti e si trasforma in spettacolarizzazione, tralasciando le attenzioni e le cautele necessarie per operare in modo compatibile nei contesti culturali e superando quella delicata linea rossa che delimita la compatibilità dall’incompatibilità. Si potrebbe anche dire che abbandona la conservazione ambita in favore della trasformazione voluta.
Il rischio è ingigantirne fuor di misura i contenuti, creare delle caricature che alterano valori, segni e messaggi, confondendo i concetti centrali che guidano il nostro mondo e che sono i concetti di autentico e di copia riprodotta, il valore della stratificazione storica in rapporto al concetto, superato da decenni, di superfetazione. Ciò porta alla liberazione e quindi alla libera trasformazione degli edifici storici. Ancora, il pericolo è quello di privilegiare la forma e l’immagine rispetto alla struttura e alle sue materie, segnate dall’utilizzo e dai tempi, concentrandosi sul visibile e su ciò che è percepibile con il senso della vista, tralasciando la fisicità della fabbrica, i suoi materiali costruttivi e la sua natura statico strutturale che, meno appariscente, può essere sostituita.
Queste forme di valorizzazione, che privilegiano l’aspetto economico e scenografico, mettono in secondo piano la necessità di conservare il più possibile autentico il documento di cultura, non passano quasi mai per la conoscenza preliminare; questo aspetto è assai significativo perché, non rilevando particolarità e i caratteri del contesto o del sito, non leggendo i segni del paesaggio dei tempi o la specificità materica di quell’architettura, si generano proposte in libertà assoluta il più delle volte prevaricanti. Così si progettano valorizzazioni non calibrate come quelle puramente economiche tipiche di una certa economia della cultura, si realizzano interventi devastanti come quelli fortemente compositivi tipici del mondo degli archistar o di chi si ritiene tale, oppure si separa l’involucro esterno da quello interno come accade tra chi privilegia l’intirior design al restauro dell’architettura storica o di chi si attarda su posizioni del restauro culturalmente superate ripristinando stati presunti originari e ritenendo che ciò sia direttamente proporzionale al reddito che se ne può ricavare.
Credendo in un approccio diverso, abbiamo centrato il convegno sul concetto di compatibilità perché non si può prescindere dalla riflessione su questo tema quando si parla di valorizzazione, altrimenti si sconfina nel suo opposto, che è appunto la prevaricazione. Per riconoscere questo limite, questo filo rosso che varia da edificio a edificio e da contesto a contesto, e anche da epoca a epoca, è necessario avere cultura e specializzazione perché ci vuole cultura per parlare di paesaggio, di borghi storici, di città d’arte, di musei, di monumenti, di ville, di eccellenze enogastronomìche, e per coniugarli con un concetto compatibile di sviluppo e con quelle azioni intelligenti che ne creano le condizioni affinchè la dinamica della valorizzazione s’innesti. Avere cultura significa passare per la conoscenza profonda del contesto, individuarne criticità e debolezze, punti di forza e limiti perché da questo nasce quella sensibilità e quella capacità necessaria per inventare soluzioni compatibili e saper passare dalle parole alle azioni concrete. Tutto ciò è cultura.
Parlando di valorizzazione è stata rilevata l’importanza della formazione, della ricerca e della necessità di avere professionisti e tecnici preparati, che sono l’unica strada per non improvvisare e per avere i due ingredienti che servono ad una concreta valorizzazione: il primo è la capacità di ben intervenire tecnicamente dalla conoscenza al progetto in tutti i settori, che sono poi vastissimi perché spaziano dall’architettura, all’arte, al paesaggio, ai contesti non monumentali, ai moltissimi campi che coinvolgono i beni culturali (gestione, organizzazione, amministrazione pubblica, progettualità tecnica, economica, creativa, di sviluppo, ecc.).
Il secondo è l’essere in grado di creare idee originali, compatibili e nuove in ognuno di questi settori, che sono la linfa della valorizzazione, perché le idee specifiche vengono solo a chi ha la conoscenza e la specializzazione; le idee non vengono e non verranno mai a chi ne è estraneo e proviene da altri universi. Bisogna rendersi conto che in questo campo, che è assai vasto e che è fatto di tecnici, di operatori economici, di gestori e di proprietari, con poco si può rovinare molto.
Alla luce di tutti questi pensieri, in apertura al convegno ho voluto ricordare quella nota riflessione di Marguerite Youcenar lì dove diceva che “Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi. Le nostre interpretazioni lasciano intatti perfino i testi, essi sopravvivono ai nostri commenti; ma il minimo restauro imprudente inflitto alle pietre, una strada asfaltata che contamina un campo dove da secoli l’erba spuntava in pace creano l’irreparabile. La bellezza si allontana; l’autenticità pure.”2 E da qui in successione una serie di straordinari relatori hanno presentato contributi di altissimo livello nei quali hanno concretizzato in azioni queste riflessioni passando in modo mirabile dal dire al fare.
NOTE
1. Salvatore Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino, 2002.
2. Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano. Seguite dai Taccuini di appunti, trad.di Lidia Storoni Mazzolani, Giulio Einaudi editore, Torino, 1988