ISSN 2283-7558

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L'EDITORIALE

Il grigio non è solo un colore

Quando sono realizzati all’interno di un monumento storico-architettonico, forse, i progetti di allestimento museale e di interior non dovrebbero percorrere una strada estranea alla cultura del restauro ma confrontarsi con questo per trovare i limiti della compatibilità.

GRAY IS NOT JUST A COLOR

When they are created within a historical-architectural monument, perhaps museum and interior design projects should not follow a path that is not align to the culture of restoration but deal with it to find the limits of compatibility.




E’ stato definito: “il grigio che non impegna” il recente allestimento degli architetti Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni nella chiesa di Sant’Agostino a Genova. Secondo Emanuele Piccardo, autore dell'articolo, “l’utilizzo di grandi setti di MDF tinteggiati di grigio, che asseconda il bianconero delle colonne, appare una non scelta, essendo il grigio un tono neutro che non impegna e sta bene su tutto. Si tratta dell’eterno problema di come mostrare bassorilievi e gruppi scultorei sepolcrali, preferendo la pesantezza delle strutture scatolari alla leggerezza delle strutture puntuali di acciaio.” Il Giornale dell’Architettura (www.ilgiornaledellarchitettura.com).

La Chiesa, ora sconsacrata, e il Convento sono delle architetture gotiche genovesi costruite tra il 1260 e 1270 e sono, come si usa dire, un monumento nazionale per le loro caratteristiche architettoniche, costruttive, spaziali e figurative. Forse, chi ha studiato il Restauro e la Storia dell’Architettura conosce il complesso di Sant’Agostino perché è un punto di riferimento nel rapporto “Antico-Nuovo” in quanto uno studio di architettura, formato da un certo Franco Albini, una certa Franca Helg e un certo Antonio Piva, ne attuarono un progetto tra il 1962 e il 1977. La realizzazione fu poi seguita da un certo Marco Albini dal 1977 al 1984.

La Storia del Restauro e della museografia italiana sono legate a Genova e alla figura di Albini anche per gli interventi di  Palazzo Bianco e Palazzo Rosso, sui quali tanto è stato detto e scritto; per noi restauratori sono uno dei temi di studio della storia del restauro, di quella particolare ricostruzione, degli approcci al tema museo che è stato coniugato in modi diversi da Carlo Scarpa a Palazzo Abatellis a Palermo o a Castelvecchio a Verona e da Franco Albini sempre a Genova, nel Museo del Tesoro di San Lorenzo a tanti altri. Sicuramente queste realizzazioni vanno contestualizzate nel periodo storico d’appartenenza ma è scontato che essendo essi stessi documentazione di cultura, di un particolare fare architettonico e di un periodo importante nel dopoguerra italiano, sovrappongono, e stratificano sul monumento nazionale altri significati.

 

Questo intervento che, da quanto è dato sapere, risponde pienamente alle esigenze del committente ed è stato particolarmente complesso per le caratteristiche formali, dimensionali e figurative dei pezzi esposti, per lo studio dei percorsi e per altri problemi tecnici, non può essere liquidato con una valutazione meramente di cromie: il colore grigio.

Non è il colore che può essere giusto o sbagliato, bello o brutto, non è una questione meramente cromatica di percezione coloristica ma, come emerge dalle immagini, sono le forme particolarmente gigantesche di quei parallelepipedi che creano l’effetto opposto a quello notato dall’autore del saggio.

I mastodontici monoliti, disposti certo in modo sapiente nell’ottica dell’allestimento museografico, coprono le basi, le colonne e i capitelli dell’ordine architettonico, sormontano gli archi gotici e rendono invisibili le cromie medievali; certo sono reversibili ma quando esistono loro non esiste più il contesto architettonico.

Oltre a essere un diaframma che impedisce la lettura dell’architettura gotica nel suo essere spazio unitario mascherano anche i segni recenti, cioè quegli spazi creati da Albini, da Helg e da Piva che oggi purtroppo sono passati in secondo piano.

Quindi l’opera, pur encomiabile, di rendere visibile una elevata quantità di reperti lapidei medievali di altissima fattura si coniuga a fatica con la valutazione attenta e critica sia del contesto antico, dove questi vanno ad essere collocati, sia con la storia recente del monumento che non è di secondaria importanza per il prevalere dei monoliti su tutto il resto.

 

Una riflessione emerge quasi spontanea dall’esame di questo invasivo seppur raffinato intervento ed è la seguente. Il progetto di allestimento museale, come quello dell’interior con il quale ha molte analogie, quando si riferisce a una preesistenza monumentale, quando il contesto sul quale si applica è un edificio che ha storie e stratificazioni complesse non può correre indipendente e isolato lungo una strada parallela e senza legami con il sito architettonico e storico nel quale s’inserisce, così come invece vorrebbe l’intendimento compositivo.

In questi casi si entra nel campo del restauro architettonico che governa la cultura e la prassi del progetto con l’antico; da secoli teorici, operativi e pensatori hanno prodotto riflessioni altissime, approfondimenti scientifici straordinari, norme tra le migliori al mondo e da alcuni decenni anche indicazioni sul metodo progettuale da seguire. E’ una cultura che non traccia sicuramente una via unitaria, che ha molteplici intendimenti, non fornisce regole e principi univoci ma è concorde nel riconoscere che in primo piano debba stare l’edificio storico e in secondo piano tutto il resto: il consolidamento statico, l’adeguamento tecnologico, l’interior e anche l’allestimento museale.

Da qualcuno questo vincolo è concepito come un freno alla progettualità attuale, all’espressione artistica dell’architetto ma si tratta di uno stimolo in più: i vincoli culturali sono una difficoltà certo ma anche una leva per innalzare il livello della qualità progettuale e sicuramente del risultato finale. E’ indubbio che bisogna voler/saper conoscere il manufatto, sviluppare i rilievi, le indagini scientifiche e le analisi storiche che diventano elementi fondanti del progetto e producono quella conoscenza fondamentale che consente di trovare i limiti della compatibilità.

 

In un suo recente lavoro intitolato “Se amore guarda”, Tommaso Montanari sottolinea un aspetto da sempre trascurato nel campo della conservazione del patrimonio culturale sia esso architettonico, artistico, paesaggistico o archeologico e che è quello dell’approccio sentimentale.

Se amore guarda, sostiene l’autore, allora si leggono e si interpretano i mille significati che il documento storico trasmette, si capiscono i tempi delle architetture antiche, che sono sempre tanti, gli utilizzi stratificati delle varie epoche, gli abbandoni, la storia recente fino ad interpretare gli spazi come opportunità e i documenti di cultura materiale non come materiali poveri, ma come elementi portatori di saperi lontani che non li rendono affatto poveri.

Questo atteggiamento di amore e rispetto per i monumenti è sicuramente in profondo contrasto con il mondo tecnologico attuale, che è arido e non da spazio a simili approcci, ma aiuterebbe molto a intendere la tutela non come un rigido dogma vincolistico, dove il cerbero soprintendente si pone come guardiano feroce, ma come un’istanza iniziale del progetto, che viene proprio dal professionista architetto o (con molta maggiore difficoltà) dall’ingegnere. Se si iniziasse ad essere educati, non istruiti, educati alla cura del patrimonio anche sotto il profilo sentimentale, e non solo in quello tecnico e scientifico, allora questi progetti di architettura immediatamente acquisirebbero una sensibilità diversa. Cambierebbe tutto: cambia l’analisi preliminare, che non sarebbe indirizzata a capire come inserire i monoliti ma studiare per non renderli prevaricanti, cambierebbe il progetto, che metterebbe in primo piano la conservazione del monumento e in secondo piano tutto ciò che è legato all’interior e alla musealizzazione.

 

Rubo da quel lavoro di Montanari anche una citazione di chiusura, che lui a sua volta ha tratto dalla prefazione di Italo Calvino al Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, quando Calvino dice che Levi è un “… testimone della presenza di un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore di un altro mondo all’interno del nostro mondo”.

Calvino non parla mai di architettura e tantomeno di restauro ma “testimone” e “ambasciatore” si riferiscono a Levi confinato in Lucania; se quella splendida definizione entrasse a far parte della sensibilità dei progettisti architetti e ingegneri quando si rapportano con il patrimonio culturale allora quell’educazione sopra ricordata sarebbe felicemente compiuta e probabilmente i giganteschi monoliti si ridurrebbero di scala.
 
Cesare Feiffer