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FINIRA' IL RESTAURO?
Il restauro come disciplina rischia di scomparire o trasformarsi radicalmente. I suoi fondamenti, basati su cultura e progetto, sono minacciati da due tendenze principali: la separazione tra interventi di conservazione e progettazione del riuso e la crisi nella formazione accademica degli architetti, sempre più teorica e meno operativa. La perdita dell’unità metodologica compromette il rapporto tra passato e presente, mentre la mancanza di docenti capaci di integrare teoria e prassi limita la trasmissione delle competenze. Senza questo equilibrio, il restauro rischia di ridursi a un mero esercizio tecnico o creativo, perdendo il legame con i suoi valori storici e culturali.
Will it finish the restoration?
The discipline of restoration risks disappearing or undergoing radical transformation. Its foundations, rooted in culture and design, are threatened by two main trends: the separation between conservation efforts and reuse planning, and the crisis in architects’ academic training, increasingly theoretical and less practical. This loss of methodological unity undermines the relationship between past and present, while the shortage of educators capable of integrating theory and practice hinders the transmission of expertise. Without this balance, restoration risks becoming merely a technical or creative exercise, detached from its historical and cultural values.
Finirà il restauro così come l’abbiamo studiato e appreso dai nostri maestri e come abbiamo cercato di trasmetterlo ai giovani negli studi professionali, nelle soprintendenze, nella didattica e nella ricerca?
Ci siamo fatti questa domanda al termine di uno dei confronti che siamo soliti avere all’interno del comitato scientifico di rec_magazine e abbiamo convenuto che si, sarà molto probabile; tra una o due generazioni finirà o sfumerà moltissimo uno dei caratteri principali della disciplina.
Tento di tagliare con la motosega a fettine una delicata torta alla crema con canditi, perché sintetizzare una tema così difficile può portare al suicidio e sono consapevole di quanto la sintesi riduca la complessità, ma lo scopo è quello di evidenziare le ragioni che stanno portando al declino senza entrare nel dibattito sulle teorie del restauro.
Ma come l’abbiamo appreso questo restauro a nostra volta dai maestri?
Il restauro architettonico - lo specifica bene il Codice - è l’ “intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali” (Parte II, Capo I, Sez. II, art. 29. comma 4), ma soprattutto “l’autorizzazione al restauro è resa su progetto” (Capo 3, Sez.1, art 21 comma 55).
Ci è stata quindi trasmessa una disciplina che, andando oltre alle diverse tendenze e ai diversi modi di interpretarla (importantissimi ma che hanno relegato la materia in un recinto teorico distante dalla realtà), fonda su due aspetti: la cultura e il progetto.
Cultura significa porsi e risolvere i problemi profondi che stanno a monte, quali quelli dell’autenticità (che di per sé basterebbe), del rapporto con il passato remoto e recente, dell’immagine architettonica in relazione alle modifiche necessarie o volute, del tracciare i limiti e i modi della conservazione, e perché no del saper interpretare il testo architettonico, ecc. A valle di ciò la cultura serve per individuare i confini della compatibilità o della prevaricazione, ossia quando l’azione non è più rispettosa ma diventa prevaricante e arbitraria, per precisare il rapporto antico-nuovo, ossia come e con quali caratteri accostare l’aggiunta all’esistente storico, ecc. ecc.
Per fornire risposte di cultura nel restauro è necessaria la competenza nel campo della storia dell’architettura e delle tecniche costruttive (che non sono poca cosa), bisogna conoscere bene l’evoluzione delle teorie sul restauro negli ultimi due secoli fino al dibattito di qualche decennio fa, che ha implicazioni assai complesse con l’estetica, la critica, ecc.; inoltre, è necessario conoscere la normativa italiana sulla tutela e i contenuti dei documenti nazionali e internazionali sulla conservazione del patrimonio architettonico e culturale.
Questa cultura è indispensabile per ricavare quella sensibilità necessaria per poter intrepretare criticamente sia il dettaglio tecnico sia l’architettura e passare con consapevolezza al secondo aspetto, cioè al progetto.
Il progetto di restauro architettonico trova i suoi limiti e gli indirizzi di metodo in quella cultura e in quella preparazione teorica sopra citata. Ciò significa, in primo luogo, che la cultura specifica serve a dare basi solide all’idea o alle idee sulle quali fonda tutto il progetto di restauro architettonico, a giustificare culturalmente tutte le scelte tecniche, funzionali, di riutilizzo degli spazi, di adeguamento fino alla definizione delle eventuali aggiunte.
In secondo luogo, il progetto si deve saper svolgere tutta quella conoscenza necessaria per formulare la diagnosi e soprattutto sintetizzare tutte le azioni in moto chiaro e univoco rappresentandole nei grafici a livello definitivo ed esecutivo.
Per ultimo, progetto significa sapersi mettere sul “tavolo operatorio” e iniziare a operare, sembra poca cosa ma nel prendere il bisturi in mano e tagliare spesso tremano i polsi se non si ha capacità, e il rapporto progetto-cantiere è una delle fasi più difficili e trascurate.
Va da sé che questo progetto di restauro deve saper anche indirizzare in modo coerente tutti i contributi specialistici, quali quelli degli ingegneri strutturisti, impiantisti, degli archeologi, dei restauratori, ecc. spesso lasciati liberi a se stessi e privi di indirizzo critico.
Questa capacità di fare progetto di restauro architettonico è da intendersi in modo duplice: per chi è chiamato in prima persona a progettare e per chi deve controllare e valutare il progetto di altri, come ad esempio i funzionari di soprintendenza, il che è cosa assai più difficile.
Il restauro è quindi al contempo cultura, perché si riferisce al patrimonio culturale e perché deriva da secoli di dibattito, e operatività, ossia progetto architettonico nel senso più letterale riferito all’architettura costruita.
Così l’abbiamo appreso: cultura e prassi, e così abbiamo tentato di trasmetterlo.
Perché dunque dovrebbe finire? Per due ragioni.
La prima ragione sta nella tendenza sempre più diffusa nel separare i due momenti del progetto, ossia quello della conservazione di materiali e strutture da quello del riuso degli spazi, delle eventuali addizioni funzionali o delle modifiche. Il primo viene governato dalle competenze tecniche legate al restauro che si riduce a operare le manutenzioni, mentre il secondo viene delegato all’architetto compositivo, cioè a chi è specialista nella progettazione del nuovo.
Queste competenze legate alla creatività, alla composizione architettonica, pur operando con segni compositivi alti e di qualità vengono da un mondo lontanissimo dal restauro, non aduso a quei vincoli e a quelle cautele necessarie per operare nel contesto monumentale o comunque storico. E’ un progettare assai diverso per sensibilità e cultura rispetto a quello specifico e particolare del restauro architettonico.
Separare in un progetto metodologicamente unitario le due fasi e affidare il progetto di riuso di un edificio antico a competenze squisitamente compositive è un gravissimo errore, perché viene meno l’unità metodologica del progetto di restauro architettonico, che vede i due momenti della cultura e della prassi strettamente connessi, coerenti e dipendenti l’uno dall’altro.
Ciò non significa disconoscere i meriti alla cultura creativa del nuovo ma quella applicata alle architetture storiche è profondamente diversa, sia che si riferisca alle emergenze monumentali o contesti rurali, sia alle architetture religiose o civili, sia ad edifici cinquecenteschi o archeologie industriali, così come ai contesti archeologici, al paesaggio costruito, ecc. Si tratta di una composizione subordinata alla preesistenza, consapevole del concetto di rispetto, di non prevaricazione, di compatibilità, che valuta attentamente e con cautela i significati della matericità, della stratificazione storica e, non ultimo, quello di comprensione dei significati storico figurativi dell’architettura con i quali ad ogni scala bisogna confrontarsi. Sono tutte raffinate accortezze che non fanno parte del bagaglio culturale del progettista del nuovo, perché è esperto e bravo nel creare edifici, palazzine, dove controlla da zero le forme, gli spazi, i rapporti chiaroscurali, le cromie e i materiali, ma non è abituato a subordinarle all’edificio storico come è invece prassi nel restauro colto. Egli viene da un’altra cultura, non ha gli occhi per leggere l’antico e per distinguerne i caratteri, il che non significa assolutamente ignoranza della storia dell’architettura - si badi bene - ma ignoranza della specificità di quel ramo della progettazione architettonica e del particolare angolo visuale nel quale il restauro inquadra l’oggetto del suo progetto.
Preciso che con riuso non intendo solo la musealizzazione, che è uno dei riusi possibili dell’edificio antico e che spesso monopolizza il tema. Intendo, piuttosto, le infinite tipologie di funzioni nuove che il professionista del restauro deve quotidianamente condurre in porto, quali: trasformare una chiesa sconsacrata in auditorium, convertire un palazzo settecentesco in residenza, inserire un agriturismo in un antico carcere, riusare le mura della città medievale per valorizzarne i percorsi, fino alle necessità della signora Pina che deve vivere il suo rustico secondo le esigenze contemporanee coniugando la sua abitazione con attività ricettive che le consentono di sopravvivere.
La seconda ragione sta nel percorso formativo degli architetti, perché nella didattica del restauro, per ragioni diverse, stanno venendo meno i docenti che possiedono quella duplice formazione di cultura e progetto che è indispensabile per poter affrontare il restauro dell’edificio storico, ossia quei docenti che siano anche progettisti. E’ una tendenza crescente quella di astrarsi dall’operatività e privilegiare principalmente la formazione teorica, culturale, storico-critica a discapito, appunto, del progetto.
Sono sempre più rari quindi i corsi di restauro che riescono ad arrivare alla sintesi progettuale credibile com’è sempre stato con le alte figure che hanno fatto la storia della didattica del restauro e che ben controllavano i due aspetti della cultura e del progetto, da De Angelis d’Ossat a Sanpaolesi, da Boscarino a Miarelli Mariani, da Dezzi Bardeschi a Marconi, da Torsello a Carbonara (che prediligevano la teoria e le consulenze ma sapevano ben progettare) a tanti altri che hanno formato docenti di restauro non solo teorici ma anche progettisti, bravi progettisti.
Se ci si arresta alla conoscenza preliminare, all’approfondimento storico, al rilievo, alla lettura dei materiali o delle tipologie edilizie, si fa analisi e non terapia, e si confina il restauro nell’universo delle teorie, che sono indispensabili ma sono solo una parte della formazione necessaria, e la sensazione è che in molti stiano andando in quella direzione. C’è una profonda e grave responsabilità nella didattica del restauro che si avvia su questa strada e che trascura la sintesi definitiva ed esecutiva per dirla con linguaggio tecnico.
Lascio all’orizzonte le mire di una certa composizione architettonica che oggi ha come obiettivo il “progetto sull’esistente storico” visto che per trovare fazzoletti di terra edificabili devono migrare in Australia.
Non è per banalizzare ma “un chirurgo che non opera quotidianamente in sala operatoria non potrà mai insegnare la chirurgia. Potrà insegnare la storia della chirurgia, la teoria della chirurgia ma la chirurgia è anche (e soprattutto) attività che si svolge in sala operatoria”. Così ripeteva a lezione il Professore Salvatore Boscarino nonostante gli strali che Manfredo Tafuri nel dipartimento di Analisi Critica e Storica in quegli anni lanciava nei confronti degli architetti operativi e contro chiunque parlasse di progetto.
Il restauro finirà perché si sta chiudendo su se stesso per incapacità progettuale, perché se non si trasmette l’operatività altre figure professionali progetteranno il restauro, non rendendosi assolutamente conto che “Il minimo restauro imprudente inflitto alle pietre, una strada asfaltata che contamina un campo dove da secoli l’erba spuntava in pace creano l’irreparabile. La bellezza si allontana; l’autenticità pure” (Marguerite Yourcenar).
Cesare Feiffer